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12/09/2018 In In ricordo di Giovanni

Franco Passarella nella ricerca di Giovanni

Giovanni è stato un vero testimone del suo tempo cercando di interpretarne gli avvenimenti e di valutarli col metro della sua umanità. Presentiamo il “caso Passarella”, giovane partigiano morto per “fuoco amico” sui monti della Valcamonica. Giovanni spese molto tempo nella ricerca dei tragici fatti, ascoltando i testimoni in vita, cercando una conclusione della vicenda che non fu mai interamente chiarita. Al suo scritto ( ne fece parecchi che inviò ai Giornali) è allegata un’intervista da lui fatta al prof. Paganuzzi, amico intimo di Franco Passarella.

Storia della Resistenza: il caso del partigiano Passarella

Un fatto storico che divide gli studiosi della Resistenza bresciana.

In concomitanza con la ricorrenza dell’8 settembre lo storico Mimmo Franzinelli  ha pubblicato sulle pagine del CdS un resoconto  sulla storia del giovane Franco Passarella, nato a Venezia ma vissuto a Brescia, ucciso il 25 giugno 1944 dalle Fiamme Verdi che lo scambiarono per una spia.

Il  prof. Anni, chiamato in causa in quanto direttore dell’Archivio Storico della Resistenza Bresciana, interviene, sempre sulle pagine del CdS, con precisazioni di carattere storico sull’ intricata e mai ben chiarita triste vicenda della morte del giovane Passarella, a cui segue una controreplica del Franzinelli .

Stimolato dalla lettura di questa diatriba tra studiosi mi sono documentato su quanto finora è stato detto e scritto sul caso. Leggendo quanto ho reperito non sono riuscito, quale lettore sprovveduto, a chiarirmi le idee, ma ho capito che sulla morte del Passarella sono sempre esistiti parecchi punti oscuri, versioni condradditorie e reticenze.

Prima di interessarmi a tutto ciò, parecchi mesi orsono, un mio carissimo amico e coetaneo, Carlo Resconi, durante uno scambio di ricordi di gioventù ebbe a mandarmi una sua testimonianza raccolta dalla viva voce  di Padre Rinaldini sull’uccisione di un giovane a seguito di uno scontro con militi fascisti. Ambedue, Carlo Resconi ed il sottoscritto, frequentavamo la Pace  negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Padre Luigi Rinaldini, già cappellano delle Fiamme Verdi, conduceva noi giovani scouts sui monti del bresciano,tra Val Trompia, Val Sabbia e Valle Camonica, a rivisitare i luoghi teatro della resistenza partigiana. E proprio all’intervento del cappellano partigiano don Rinaldini – scrive Franzinelli– le povere spoglie dello sventurato diciottenne vengono individuate nel 1946, a guerra finita,in Valcamonica nel cimitero di Vissone.

Rileggendo ora lo scritto dell’amico Carlo Resconi, ho subito ravvisato nel suo racconto molti particolari che riconducono all’uccisione del Passarella.

Stralcio dal racconto del Resconi quanto Padre Rinaldini raccontò una sera a noi  radunati attorno al fuoco di bivacco durante un campo scout sulle nostre montagne nel lontano 1946 :

<< …… Ricordo una sera: come il solito ci eravamo tutti preparati in cerchio nella radura fuori dal bosco che sovrastava la valle,dove era stata preparata la catasta di legna raccolta per tempo. Il cielo era diventato blu e le stelle cominciavano a farsi vedere, eravamo in aprile e faceva ancora freddo: Le luci di fondo valle stavano scomparendo, coperte dalla nebbia che si alzava. Zitti e pazienti aspettavamo che il fuoco si ravvivasse.

Il nostro accompagnatore, zitto come noi, era un giovane prete che pochi anni prima, nel pieno della guerra diventata fratricida, era stato mandato dal suo vescovo a raggiungere suo fratello e i suoi compagni nascosti in montagna, perché avessero conforto e notizie  e sentissero di non essere stati lasciati soli.

In  questa tristissima guerra il prete perse poi il fratello (leggasi: Emiliano Rinaldini fucilato dai militi fascisti a Barbaine di Belprato in Valle Sabbia). Perché non succedesse ancora che ci si uccida tra fratelli, con i suoi compagni aveva deciso che occorreva cambiare la mentalità e l’educazione dei giovani. Per questo alla fine della guerra si dedicò anima e corpo alla rinascita dello scautismo bresciano.

Il fuoco si era ravvivato, i monti e il fuoco erano diventati una cortina nera sul blu del cielo e si vedevano le nostre facce. Il prete taceva e aspettava. Uno di noi disse: “E’ in questi posti che hai fatto il partigiani?”

Lui sorrise.”Non ho fatto il partigiano, nel mio mestiere non si può. Mi avevano mandato qui per rincuorare i giovani che avevano scelto una strada di libertà, c’era anche mio fratello. Andavo e tornavo quando potevo, portavo notizie e lettere”. “Non ti hanno mai fermato?” “ Ma tu hai combattuto?” “No di certo. Il compito del nostro gruppo  era quello di impegnare le truppe tedesche e fasciste togliendole dalla guerra vera che si avvicinava dal sud, di raccogliere gli sbandati, di rifornire le bande partigiane di cibo e notizie, ma soprattutto di preparare gli animi alla ripresa della vita civile e democratica. Eravamo armati, certo per difenderci e per difendere alla bisogna i civili soggetti talvolta ad aggressioni brutali.

Un giorno avevamo lasciato come il solito, più in basso, alcuni dei nostri per il controllo della strada provinciale.

Ho un ricordo preciso come se fosse successo ora: sentiamo alcuni spari e dopo pochi minuti due dei nostri salgono di corsa: “Arrivano i fascisti!”

Subito il campo si anima, prendiamo gli zaini, spegniamo il fuoco e ci disperdiamo sopra il prato, nel bosco. Vediamo venir su, guardinghi, alcuni militi armati di mitra. Entrano nella nostra malga, buttano fuori le poche cose che avevamo lasciato e poi risalgono il pendio. Quando sono a pochi passi dal bosco si sente un fischio dall’alto. I nostri sparano per dissuaderli dal proseguire. I militi di corsa scendono e si riparano dietro i muri della malga. Dopo un po’ vediamo tanto fumo, la malga brucia e al riparo del fumo i militi riprendono la via per la quale erano saliti. Alcuni dei nostri li seguono a distanza per controllare se se n’erano andati davvero. La malga è andata in fumo insieme ai viveri e poche altre cose. Non ci resta che riprendere la strada dei monti e andare altrove. Intanto quelli che erano scesi a controllare la partenza dei militi tornano spingendone uno. E’ vestito con i pantaloni alla zuava grigio verde e il maglione nero. È piccoletto, disarmato e senza berretto. Gli siamo tutti intorno: è un ragazzino e piange, probabilmente più per la stizza che per la paura.

Lo portiamo con noi più su, troviamo un altro riparo e per due giorni lo sorvegliamo a vista. E’ tranquillo e beneducato . tanto che gli diciamo” Non possiamo lasciarti andare. Ne va delle nostre vite e di quelle dei nostri familiari. Hai sentito parlare di ritorsioni e rappresaglie? Tu devi restare con noi, ma non ti imprigioniamo se tu ci dai la tua parola d’onore che non tenterai di fuggire”.

Certo che ce l’ha data la sua parola e noi abbiamo creduto che valesse quanto la nostra. Ma durante una marcia di trasferimento: “Hai visto il ….?” “Era qui un momento fa”. “E ora dov’è? Tornate indietro  e riprendetelo”. Dopo qualche ora eccolo di nuovo, spintonato da chi era riuscito a raggiungerlo prima che arrivasse in paese.

“ Perché sei fuggito?” gli chiediamo. “ Perché prima di dare la parola a voi l’avevo data alla mia Patria”.

“E se ti lasciamo andare cosa farai?” “ Andrò dai mie camerati e dirò chi siete e dove siete”.

“Hai capito che non possiamo lasciartelo fare”. “L’ho capito, sì, ma io ho dato la mia parola”.

“Non ci fu verso e non c’era altra soluzione. Lo abbracciammo tutti, piangendo, lui ci perdonò e noi lo fucilammo. Non sapremo mai se noi riusciremo a perdonarci”.

L’aria era diventata molto fredda e noi non avevamo più voglia di chiedere altro. Spento il fuoco andammo a dormire senza una parola. Quello che ci aveva confidato non poteva essere facilmente compreso alla nostra età.

E’ passato più di mezzo secolo, ma non sono ancora in grado di giudicare questa storia che ultimamente mi è tornata in mente di prepotenza. Non ricordo né il  luogo, né quando il nostro Assistente si confidò con noi. Vorrei tanto avere tenuto un diario: dato il tempo trascorso, può darsi che la mia memoria sia diventata sbiadita e imprecisa, tanto che il finale della storia non mi pare più verosimile, e il tutto svapora quasi fosse un sogno. Né spero di avere da alcuno conferme o correzioni: di quelli che c’erano quella sera, forse sono rimasto solo io >>.

L’amico Resconi, nell’inviarmi questa sua memoria, scritta sotto forma di racconto, mi chiese se anch’io ricordavo . Purtroppo no, però ho conosciuto troppo bene padre Rinaldini: da giovane lo seguivo sempre nelle sue peregrinazioni con gli scouts del gruppo della Pace e gli sono sempre stato molto vicino fino alla sua morte.  Posso  affermare che quanto egli raccontava era sempre frutto del suo vissuto e che nulla concedeva alla fantasia.

Padre Rinaldini conosceva Passarella dai tempi della sua frequentazione della Pace insieme all’amico fraterno Augusto Paganuzzi.  E’ abbastanza verosimile che il Rinaldini, avesse riconosciuto nel giovane catturato dai ribelli il ragazzo che frequentava l’oratorio della Pace, senza poter fare nulla per salvarlo. Nemmeno il Paganuzzi nei suoi “Ricordi del tempo di guerra e di Franco Passarella “ datati 21 settembre 2005 è  riuscito  a fare luce sull’attività clandestina del’amico, dopo che questi si eclissò da Brescia senza lasciare più alcuna traccia di sé. Come mai

i partigiani lo scambiarono per una spia fascista? E’ forse plausibile che nel suo girovagare tra i monti a cavallo tra Val Trompia e Valle Camonica fosse incappato in una retata dei militi fascisti e e poi costretto o convinto a rimanere con loro? Ancora al giorno d’oggi a questi interrogativi non ci sono risposte certe.

Nel dicembre 1946 fu padre Rinaldini a contattare il parroco di Vissone dove fu sepolto Franco Passarella ed a recuperare alcuni suoi oggetti personali: il portafoglio contenente una fotografia della sorella Federica ed una minuscola edizione della Divina Commedia che portava sempre con sé. Come faceva a essere a conoscenza del località  ove avvenne il tragico fatto?

Ritengo che Il racconto dell’amico Resconi sia molto verosimile ed apra uno spiraglio di luce sugli interrogativi ancor oggi rimasti in sospeso. Dalla mia frequentazione assidua, sia da giovane che in età adulta, di padre Rinaldini non ho mai appreso da lui ne intuito ed arguito che egli abbia mai partecipato o assistito a fatti di sangue oltre a quello raccontatomi dall’amico Resconi. Con questo racconto si viene ad aggiungere un inedito tassello a questo episodio, ancor oggi molto controverso, della Resistenza bresciana.

Giovanni Scandolara, settembre 2013

Franco Passarella, Intervista al prof. Augusto Paganuzzi

Brescia, 21 giugno 2014

Per me è un emozione ricordare Franco in questo posto, perché la sua famiglia e la mia abitavano qui: la mia al piano rialzato della scala 4, e lui mi sembra 5, scala 5.Con Franco eravamo molto amici, perché andavamo insieme all’Arnaldo, dove anche i nostri genitori insegnavano.

Dopo l’8 settembre la situazione diventava drammatica: [sirene], bombardamenti, partigiani… Una volta, in via San Faustino, andando a scuola, abbiamo trovato due poveri partigiani uccisi, con una baraonda di fascisti attorno che non volevano che si toccassero perché volevano che fossero messi in evidenza per terrorizzare la popolazione. Franco ed io ci domandavamo, tra di noi, seduti la sera  sulle panchine dell’Incis[1] o andando a scuola, o andando alla “Pace” – dalla quale, sia pure con prudenza, da ogni pietra sprizzava voglia di libertà e la condanna del fascismo –  cosa possiamo fare?

Io avevo anche tentato, attraverso la figlia di Lunardi – poi Medaglia d’Oro, fucilato il 6 febbraio del ’44 con Margheriti –, di entrare nel movimento partigiano. Forse lui mi conosceva un po’ come… ancora non tanto quieto, e mi ha detto di no. L’unica cosa che mi ha permesso di fare è [stata quella] di distribuire Il Ribelle – pensate che ne ho portata qui una copia, per chi la volesse vedere, data l’occasione –, ma soprattutto con Franco ci domandavamo cosa potevamo fare.

C’era venuto in mente di fare qualcosa per conto nostro, d’accordo tutti e due, vi farà un po’ sorridere, adesso, ma allora era quello che poteva essere: di notte, con la nebbia (anche alle sei di sera, d’inverno: nell’inverno del 1943-44), uscivamo con le biciclette per voltare tutti i segnali tedeschi, verso Milano, li voltavamo… Prima lo facevo da solo, qualche volta, ma era difficilissimo salire sulla bici da solo. Quando eravamo in due era una pacchia: lui teneva la bici e io salivo su (o viceversa), svitavamo questi segnali… Poi avevamo anche inventato di mettere dei chiodi, delle tavolette di legno con un chiodo di acciaio che venisse su, sotto le ruote posteriori dei camion dei tedeschi, che qui erano distribuiti e fermi… L’abbiamo fatto parecchie volte, sempre cambiando zona per non essere colpiti.

Una volta – la più grossa esperienza terribile che abbiamo fatto –, verso dove adesso c’è l’ospedale civile, c’era un grande parcheggio di camion militari tedeschi, e noi una volta siamo andati lì, con le cesoie (eravamo proprio organizzati): tagliata la rete andavamo sotto i camion e tagliavamo la cinghia di trasmissione o sbullonavamo il [tappo del] recipiente dell’olio, finché una volta (l’abbiamo fatto una volta sola  questo), mentre facevamo questo ad un certo momento – non sapevamo che fosse custodito –: abbiamo sentito dei passi, ci siamo rintanati sotto questo camion, terrorizzati nel silenzio e abbiamo visto i gambali del tedesco passare. Se aveva il cane noi oggi non saremmo qui a raccontare la cosa, probabilmente… Lì non ci siamo più andati, per il terrore che abbiamo avuto. Però queste cose le abbiamo fatte per parecchio tempo.

Verso la primavera del ’44 Franco mi disse: «Io, finita la guerra [lapsus, nel senso che si intende dire “la scuola”, evidentemente] voglio andare con i partigiani. Vieni anche tu?». Devo dire che io ho detto di no, per essere molto sincero: un po’ la paura, perché sapevamo che con l’inverno [con la fine dell’…] non sarebbe ancora finita la guerra, un po’ perché ero l’unico maschio – cioè, avevo un fratellino piccolo – di una famiglia dove mio padre se fosse mancato non avrebbe avuto nessun sostentamento, per cui… di farlo senza dirlo a loro – ero minorenne – non volevo, fatto sta che io ho detto di no. Non ne abbiamo più parlato. Finita la scuola – io ho saltato anche la terza liceo, quindi ho fatto la maturità con lui, perché chi poi si  iscriveva a Medicina non veniva chiamato sotto le armi dai fascisti –, lui finita la guerra [il ripetersi del lapsus testimonia lo stato di tensione…], insomma, è sparito, non l’ho più visto. L’ultima volta che l’ho visto è stato qui, sulle panche dell’Incis.

È sparito! Non ho avuto in coraggio di chiedere alla famiglia, ai genitori, dove fosse, perché l’avevo capito e avevo paura che loro non sapessero, mentre… Fatto sta che io non ho chiesto niente. Stranamente loro, nel vedermi, non mi chiedevano niente, e allora ho un po’ capito che sapevano, se no mi avrebbero chiesto: “ma Franco? Non sai niente?”. Loro sapevano della nostra amicizia.

E così è stato. Io non mi sono più interessato di lui, preso da tantissime cose. Soprattutto c’era un grandissimo movimento di assistenza alla tragedia di quei momenti. Il vescovo e il suo segretario, monsignor Pietrobelli – al quale, caro Manzoni, direi che andrebbe intestata una delle nuove vie di Brescia, perché è stato un uomo straordinario – avevano organizzato un sistema di assistenza… Ascoltavamo dalla mattina alle sei i messaggi della Croce rossa che comunicavano i nomi dei prigionieri nei vari campi di concentramento tedeschi: quando sentivamo… “Giovanni Pintossi, Valcamonica, Valtrompia, Gardone… segnavamo e poi mandavamo ad avvertire le famiglie, che tornavano da noi commosse e ci riempivano di salami, di tutto… Però il vescovado stesso non aveva bisogno di queste offerte, perché… Nella stanza del vescovo, quando mi mandavano a prendere del materiale, io dovevo camminare su sacchi di grano! Nella stanza da letto del nostro vescovo monsignor Tredici.

Poi c’era l’assistenza, dopo i bombardamenti, ai feriti: avevamo fatto, con una barella e due ruote di bicicletta in parte, una lettiga, con la quale andavamo a prendere i feriti e li portavamo all’ospedale a piedi, trotterellando. Però l’ospedale non era in via Moretto, era alla Pendolina . Per cui eravamo talmente impegnati in queste attività, che io ho dimenticato  Franco, pensando: ormai so dov’è.

Finita la guerra lui non è tornato. Allora sì che abbiamo cominciato a preoccuparci! Però, la realtà è che io chiedevo agli amici partigiani – perché eravamo pieni di amici: Trebeschi, Salvi… Non faccio neanche i nomi, perché tanto li sapete –: sapete niente di Franco? Sono andato a chiederlo perfino a quello che poi è diventato sindaco di Collio, Gerola, il dottor Gerola,[2] che era un capo partigiano, e lui mi ha detto: “no, guarda, non era con noi, però …., non cercare, son successe talmente tante cose. E questo me lo dicevano tutti: lascia perdere, non andare incontro a questa cosa, guarda, è una roba [parola incomprensibile].

E così è stato. Finché un giorno si è saputo che era morto. E si diceva che era stato ucciso orde  fasciste.

Qualcuno invece diceva: “No, è stato ucciso dai partigiani”. Si è poi saputo che è stato ucciso dai partigiani. Però la cosa la cosa più grave che ci sia non è tanto questa, gravissima, ma insomma, in quei momenti lì come si fa a giudicare? Certamente, se fossero state delle vere Fiamme Verdi, dei  veri partigiani organizzati,  probabilmente l’avrebbero tenuto, avrebbero mandato a Brescia a chiedere, perché suo padre era un  partigiano di Giustizia e libertà, e tutti lo sapevano questo, quindi potevano salvarlo.

La cosa più drammatica è che chi sapeva ha taciuto per un anno, compreso il parroco di Vissone. Poi è stato dimenticato… Quindi potete immaginare la mia gioia nel vedere oggi rivalutata questa figura di ragazzo, che è stato un vero partigiano, che è morto per la libertà.

[1] «L’Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati dello Stato si costituì nel 1924 con lo scopo di fornire ai suddetti impiegati alloggi a condizioni favorevoli nelle città, in cui più acuta si sentiva la crisi edilizia. .

[2] Pietro Gerola, autore del libro biografico Nella notte ci guidano le stelle.

 

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