
Al fine di onorare la memoria di Giovanni, il Direttivo CePAF ha deciso di editare alcune sue memorie scritte relative a fatti che lo hanno visto protagonista o fatti di attualità per cui spesso scriveva proprie considerazioni, inviandole, poi, anche alla stampa locale.
Sceglieremo di volta in volta gli scritti più significativi e originali, sottolineando che sono momenti di una storia che lo ha visto protagonista sempre impegnato nella realizzazione del bene comune, così come è lo stile dello scoutismo che lo ha formato.
L’incredibile storia di un salvataggio sulle dolomiti del Brenta. Come ho ritrovato, dopo oltre sessant’anni, l’unica superstite.
di Giovanni Scandolara
“Alle 13,30 di sabato 29 luglio 1950 – scrisse un cronista di allora – un giovane alpinista bresciano, Giovanni Scandolara, irruppe trafelato al rifugio Brentéi, raccontando che dalle pareti dei Francigli che rinserrano la vedretta dei Camosci provenivano intervallate delle grida di aiuto. Al rifugio era l’ora della siesta. L’allarme piombò sul Brentéi come una saetta….. “.
La sciagura presentava degli aspetti singolari e impensabili: quattro giovani escursionisti, Maria Rita Franceschini di Trento, il cugino Vittorio Conci e Giuseppe Fiorilla di Brescia, la diciannovenne Mauretta Lumini di Firenze, legati alla stessa corda, erano precipitati in un crepaccio sul cui fondo rimasero prigionieri per quattro giorni e tre notti. Sopravvisse solo Mauretta Lumini, che assistette alla lenta agonia dei suoi compagni. Il suo salvataggio, compiuto dai fratelli Bruno e Catullo Detassiss coadiuvati da altri due alpinisti e dal sottoscritto ebbe del rocambolesco in quanto l’eco rimandava le invocazioni di aiuto dall’alto delle pareti rocciose, per le difficili condizioni in cui avvenne ed ebbe poi un lungo strascico di polemiche.
In compagnia di mio padre stavo scendendo da cima Tosa. Egli rimase particolarmente scosso poiché due delle vittime, Vittorio Conci e Giuseppe Fiorilla, erano nostri concittadini e ne conosceva personalmente i genitori (Conci padre era stato insegnante di mio fratello, anch’egli morto molto giovane , alcuni anni prima, in un incidente sui monti di casa). Io, ventenne, superai più rapidamente il trauma e ripresi quasi subito ad andare per monti.
Due anni dopo mi trovavo al rifugio della Lobbia Alta in Adamello. Un giovane alpinista durante la siesta serale raccontò, con dovizia di particolari l’accaduto sulla vedretta dei Camosci, di essere stato protagonista del ritrovamento e di aver partecipato alle operazioni di soccorso. Egli era un giovane che casualmente si trovava alla Bocca dei Camosci che nulla sapeva e che, anzi, con le sue segnalazioni contribuì a rallentare le nostre ricerche. Io lo ascoltavo ammutolito e pensavo “ è proprio vero che anche la montagna …. non sempre è maestra”!.
Oggi, a distanza di oltre sessant’anni, sono rimasto l’unico testimone in grado di raccontare compiutamente come veramente si svolsero i fatti in quel tragico giorno di fine luglio 1950. La mia testimonianza è stata pubblicata integralmente sulla rivista CAI ( “La tragedia della vedretta dei Camosci n. nov./dic. 2011 pag.54 reperibile anche sul sito www.cai.it).
A seguito della pubblicazione dell’ articolo ricevetti telefonate e messaggi, tra cui quello del sig. Valentino Mosca Carlét di Caderzone di Val Rendena, che, sorpreso, lessi con grande interesse. Si trattava di una accorata testimonianza resa nel 1996, quarantasei anni dopo l’accadimento del fatto, che qui riporto integralmente:
Immenso dispiacere
Di Valentino Mosca Carlét
Era il 25 luglio del 1950, quando una comitiva di quattro amici universitari: Vittorio Conci, Giuseppe Fiorille, Maria Rita Franceschini e Mauretta Lumini, Partiti da Malé, arrivano alla Malga Brenta Bassa nel pomeriggio, dove io mi trovavo a custodire le mucche assieme a mio zio.
Allora avevo 15 anni, uno di questi ragazzi mi chiese se potevo accompagnarli fino in val d’Agola e così con il permesso di mio zio, li accompagnai: da lì il sentiero per il 12 Apostoli era segnato. Con i sacchi a pelo pernottarono lì in val d’Agola e alla mattina dopo proseguirono per il rifugio 12 Apostoli.
Nei tre giorni successivi pensavo spesso a quei ragazzi così contenti di essere in gita sul Gruppo di Brenta: Ma ben presto il mio pensiero si trasformò in un immenso dispiacere, purtroppo la mattina del 30 luglio, quando si seppe che il gruppo inghiottito dal crepaccio nel Vallone ghiaccato dei Camosci, era quello che avevo accompagnato io quattro giorni prima. Perciò fui io l’ultimo a parlare con loro.
Alla sera di quella triste giornata verso le ore otto stavamo preparandoci a cena, quando vedo arrivare Antonio Dallagiacoma, la più vecchia guida alpina di quegli anni. Veniva a vedere se avevamo lì il mulo con il carro, sarebbe servito per trasportare le tre salme da dove incomincia la salita pe le Brenta Alta e portarle giù alla zona della vecchia segheria, dove arrivavano i carri funebri e i rispettivi famigliari: Ma purtroppo il carro non c’era, allora andai io incontro alle persone che fin dal mattino si erano impegnate per il recupero delle salme.
Posso sinceramente dire che quei momenti impiegati per arrivare dove incontra le Guide, siano stati i momenti più tristi della mia vita. Arrivate alla malga posarono le tre giovani vite ed invitai Loro nella cascina per riposarsi qualche minuto e a mangiare qualcosa: Poi assieme a mio cugino e alle Guide accompagnammo le salme fin dove c’erano i carri funebri e i Famigliari. Vi lascio immaginare lo strazio di quei momenti.
Ma come in tutti i periodi tristi c’è sempre un momento di sollievo. Tempo fa, leggendo il Rendena Otto, trovai la storia di quella disgrazia: Allora mi misi alla ricerca dell’unica su persiste. La signora Mauretta Lumini di Firenze. Le spedii anche il giornalino dal momento che la storia riportata era il riassunto fatto dalla stessa Mauretta, pochi giorni dopo l’accaduto.
Mi sentivo di fare questa testimonianza per completare quella storia in parte vissuta anche da me.
Da allora non avevo più ne incontrato ne sentito Mauretta. Valentino Mosca aveva fortunatamente conservato il suo indirizzo, così mi misi in contatto per informarla del mio articolo.
Ricevetti poco dopo, nel marzo 2012, con non poca sorpresa, una sua toccante e un po’ commovente lettera che qui trascrivo:
Caro Sig. Giovanni,
Le avevo promesso di scriverle quando avessi ritrovato , nel mio intimo, la ragazza che ero in quei giorni di luglio 1950.
Le scrivo perché lo devo per riconoscenza, non solo perché la sua iniziativa mi ha permesso di ricordare il cognome di suo padre e quindi suo, che avevo perso nei meandri della memoria e non più ritrovata fra le carte di mia madre, nome per me importante perché di persone che hanno raccolto le mie invocazioni salvandomi così la vita, ma anche perché, facendomi conoscere il suo articolo, mi ha permesso di ricostruire, con la serenità che oltre 60 anni di distanza permettono la memoria dello svolgimento, nei dettagli, di quella tragica avventura in cui vidi morire i miei compagni di gita senza riuscire a portare loro il minimo aiuto.
Il suo articolo è preciso e articolato e ha dato concretezza alle voci lontane che dopo giorni di silenzio ho sentito e mi hanno fatto sperare che, finalmente, ci avrebbero cercato.
Mentre il tempo passava lento, perché l’attesa è sempre lunga, resa ancor più lunga dal fatto che al primo richiamo, forse il vostro Vittorio Conci era ancora in vita, anche se agli estremi, ma mi rispose alle sollecitazioni che gli davo; purtroppo poco dopo si chiuse in silenzio, non prima di avermi detto, con un fil di voce, che senza Rita (sua cugina prima) non sarebbe tornato a casa.
Io rimasi sola per ore ed è passato del tempo prima di sentire altre voci lontane……..non avevo paura ed ero sicura che presto ci avrebbero trovato, aspettavo …..
Perché sono sopravvissuta? Come ipotizza giustamente lei, una resistenza fisica e la volontà di tornare che non mi ha mai abbandonato.
Ero sicura di rivedere mia madre, che non era in buone condizioni di salute e mio padre, a cui avevo “strappato” il permesso di fare il giro dei rifugi del Brenta, agognato da tempo.
Quindi “GRAZIE”, anche se le parole non possono rendere la profondità dei miei sentimenti.
Le auguro di cuore di rimettersi presto in salute e poi, chissà, cosa ci riserva il caso.
Mauretta Lumini
E così le ho risposto:
…………. essere riuscito a corrispondere con lei, dopo così tanti anni, ha dato anche a me molto conforto.
Chissà, come dice lei, cosa ci riserva il caso…….”
P.S. Una ricostruzione più “giornalistica” con testimonianza di uno dei soccorritori può essere letta al presente sito: