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17/08/2018 In In ricordo di Giovanni

Padre Rinaldini – Zì Bigio (2°)

Ecco la seconda parte della memoria di Giovanni su Padre Rinaldini.

                   18-20 agosto 1945: CAMPO A CAREGNO.

Partono 10 esploratori e 5 pionieri che “passeranno” e si faranno un’idea di ciò che si fa lassù.
Si parte il sabato mattina, con il sottoscritto, al dopopranzo verrà Ferrari.
Arrivati lassù ci si sente dire che nei prati non si possono installare le tende e si va a scovare un pezzo di terreno che sia pianeggiante per rizzare le nostre due tende, ma la zona non è molto facile. Si deve lavorare per ben sei ore per spianare il terreno che è a 45 gradi di pendenza, per fare un muretto a secco, trasportare tutte le toppe del prato perché facciano da materasso, piantarci la tenda ….. scavare in fretta i fossetti per evitare che l’acqua promessa da molti nuvoloni e prossima a scendere abbia ad entrare in tenda, dato che ormai sgocciola. Arrivato Ferrari, P. Rinaldini (ormai Zi’ Bigio, suo nome fra i ribelli della Valle Trompia in guerra) scappa a Brescia, o meglio, a Gardone. Il giorno dopo sarà in sommo pensiero apprendendo che l’acquazzone è caduto nella zona del campeggio: forse tende e tutto è scivolato via nel fosso(n.d.r. però tutta notte svegli a raccogliere acqua che sgocciolava all’interno delle tende). Invece il lunedì tutto arriva a Brescia, con la massima allegria.
Ora si tratta di preparare il nostro campo, quello che si vuole fare noi. Dove? …. A Val Paghera … A Croce di Marone … Ultima conclusione: sarà a Vaghezza. Verrà anche il Sig. Scandolara, (n.d.r. papà del C.sq. Giovanni) che sarà il nostro direttore (n.d.r. ora = Capo Gruppo)
Si andrà prima con tutti gli esploratori una volta a S. Filippo e poi a Camaldoli (prima di settembre); la salita è dura, la discesa ancora peggio, per via delle biciclette: ma il campo è riuscito bello e allegro, troppo breve dalla sera alla mattina. Ormai si comprende che i campi così brevi stancano molto fisicamente, entusiasmano sempre, ma che è molto meglio durino di più.
E’ meglio ora parlare dei pionieri, dato che con Vaghezza i pionieri diventano esploratori e vengono a formare un unico riparto insieme alle squadriglie che rimangono dopo le varie eliminazioni prima di Caregno e prima di Vaghezza, salvo eliminare ancora prima della inaugurazione, e come risultato degli esami di Esploratore semplice fatti a Vaghezza, invece affrettatamente.
Le squadriglie dei pionieri in agosto vengono ridotte a due, con nomi diversi, e poi vengono di nuovo ridotte nel loro numero e mutati i C.Sq. che diventano definitivamente Giacomo Corna e Giovanni Scandolara. Assieme ai V.C.Sq. partecipano al campo a Caregno per vedere che si fa.
Essi scendono contenti ed entusiasti, ma bisogna lavorare ancora di bisturi ed eliminare ancora altri pionieri; Enzo si ammala e poi sparisce.
In questo tempo vengono ridotte a sei le squadriglie degli esploratori. Se ne perderà poi ancora una perché un capo squadriglia verrà operato e non potrà più partecipare.
In agosto con i pionieri si va a fare un campo notturno, con conseguente preparazione del cibo, a Botticino o meglio alla Trinità vicino a S. Gallo: il campo viene bene, salvo il finale con l’acqua, però molto allegro.
Altro era in programma, ma ormai si vede che è opportuno unire pionieri ed esploratori, farne un unico riparto, amalgamarli, perché non sarà possibile avere buoni pionieri se non avranno prima fatto per bene gli esploratori. I capi squadriglia se ne sono convinti e desiderano lavorare insieme. Hanno visto che gli esploratori sanno fare più e meglio di loro; in più uno dei due capi squadriglia pionieri confessa di non avere ancora 15 anni e di avere falsato la cosa quando l’età gli era stata chiesta perché voleva fare il pioniere.
Il giorno 9 settembre si parla anche con un gruppo di quattro universitari che, parrebbe, potrebbero divenire altrettanti istruttori, non se ne caverà poi nulla.
Il 13 settembre si fa la riunione dei capi squadriglia per preparare il campo in Vaghezza; il 14 la riunione delle squadriglie; il 15 si parte per Vaghezza e vi si resta per quattro giorni dal 15 al 18 settembre partendo da Brescia ed arrivando sul luogo in bicicletta con tutto il materiale e tutti i viveri per quattro giorni, compreso il pane.
Vengono scelti il magazziniere, il cassiere, il bibliotecario, il tesoriere, l’attrezzista di riparto.
Vengono distribuiti alcuni canti della montagna, << Passa la gioventù >>, norme per il punteggio e il risparmio ai capi squadriglia.
Vaghezza. – Il campo è andato bene, molto contenti i ragazzi, fatti gli esami per esploratore semplice, esplorazioni, gite, giochi scout, uno inventato lassù è ben riuscito, era un gioco di Kim e di osservazione combinato con il gioco del Tesoro, tracce, ecc.
Ha molto interessato. E’ stato duro insegnare l’ordine e la pulizia che spesso faceva difetto e che sarà, speriamo, un frutto dei prossimi campi.
Costruito l’altare per la messa al campo. Parecchi scouts, al ritorno, abbiamo dovuto eliminarli per insufficienza, alcuni perché ammalati, come meglio ci è risultato dalla visita medica fatta il 7 ottobre.
Resta così un gruppo di 28 scouts che hanno superato gli esami di esploratore semplice e che faranno, non appena possibile, la promessa; in più alcuni che non hanno per ragioni varie potuto fare gli esami, e che li faranno non appena possibile.
Appena dopo Vaghezza non sussiste più alcuna divisione tra esploratori e pionieri; restano 7 sq. di esploratori in un unico riparto; un po’ pesante di numero, adire il vero, ma la divisione si farà più tardi quando siamo amalgamati meglio.
Appena dopo Vaghezza viene sistemata la sede a piano terreno (ex Voluntas), sistemandovi per bene gli angoli di squadriglia.
L’inaugurazione del riparto viene fissata per il giorno 20 ottobre: vi saranno Don Sergio Pignedoli e Mazza, Commissario centrale tecnico al lavoro.
4 ottobre riunione dei capi squadriglia.
5 ottobre riunione delle mamme degli scouts.
6 “ “ di tutti gli scouts semplici.
7 “ “ visita medica.
7/14 “ “ varie degli scouts: sistemazione divise, preparazione sede e materiale per veglia d’armi.
18 sera: alle ore 18 inizia il campo nel cortile della Pace per la veglia d’armi.Alla sera due parole di Don Foccoli, al mattino il sottoscritto parla ai ragazzi dopo non essere riusciti a dormire granché.
Ore 8,00 S. Messa – Parole di Don Pignedoli con offerta dell’ostia – benedizione bandiera e fiamme.
“ 9,00 Benedizione sede.
“ 9,30 Promessa in cortile – Canti e giochi scouts.
Interviene anche il comandante alleato a Brescia Col. Robinson, che rivolge parole agli scouts, visita le tende trovando (fa parte del gioco) del materiale non pulito a sufficienza e riconoscendo da varie cosette la nostra inesperienza scout.
Nelle settimane che seguono ci si trova regolarmente il sabato alle quattro con tutto il riparto.
Per Natale P. Bevilacqua ci invita a costruire il presepio; con lena lo si appresta in quattro giorni.
Per dopo Natale si pensa un campo a Marmentino per i capi sq. per poterli formare. Difatti si riuniscono insieme, tutti desiderosi di partecipare, si dividono in due squadriglie con a capo Zi’ Gabri e Zi’ Aldo, che potranno mostrare vissuta la vita di squadriglia. Il campo riesce ottimamente.
Buona caccia !!
Zi’ Bigio
ottobre 1965

Un vecchio capo scout ricorda.
Quella sera ……..al fuoco di bivacco.

“Siamo stati fortunati, io e i miei compagni di giochi, negli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, a capitare nelle mani di alcuni giovani più grandi di noi, ma non di tanto. Uomini che pochi anni prima erano stati costretti drammaticamente a decidere del proprio futuro.
Uno veniva dall’esercito, e il 9 settembre del 1943 si era trovato senza generali e senza ordini. Un altro veniva dalla scuola, un altro ancora dal seminario. Chissà come si erano messi insieme e avevano poi insieme preso la via delle montagne.
Noi invece, più giovani, non ci eravamo trovati davanti ad un bivio tremendo come loro. Avevamo soltanto subito disagi e paure e scampato pericoli, ma la nostra giovane età, intorno ai dodici-tredici anni nel ’43, ci aveva dispensato da ogni responsabilità e da ogni scelta.
Dopo la guerra, loro non ritennero concluso il proprio dovere civile. C’era da rimettere in sesto tutto quello che prima era stato scardinato, e si dedicarono alla rieducazione della generazione successiva.
Ci diedero regole semplici, una divisa da rispettare e tante buone abitudini. Ai ragazzi più piccoli di noi avevano fatto un invito: venite a giocare con noi, e gli insegnarono l’allegria e a diventare fratelli. Avevano detto: vediamo se avete il coraggio di partire alla scoperta di cose nuove. E indicandoci mete sempre più difficili, facevano leva sulla nostra voglia di misurare i nostri limiti per emulare le capacità e la resistenza di chi ci guidava. Vita semplice accontentandosi di poco; superare le difficoltà, rispettare la parola data, liberamente acconsentire alle proposte, essere curiosi e generosi. Sempre in competizione leale, ma ricordare che prima viene il tuo compagno. Pronti ad ogni sfida, ma sempre onesti e sinceri. Ci abbiamo provato, qualcosa forse è rimasto.
Ci fecero attraversare l’Europa per conoscere i suoi abitanti, educandoci al rispetto della natura e di chi l’abitava per farci vedere che erano tutti come noi e che ogni inimicizia, come quella di cui avevamo visto i risultati, era sciagurata. Una educazione ben diversa da quella nazionalista che ci era stata inculcata da piccoli. Per conoscere posti e gente nuova ci facevano camminare molto e la sera eravamo stanchi morti. Ma era anche regola che si dovesse fare notte intorno al fuoco parlando di ciò che ci interessava. Loro guidavano la discussione, in modo che ognuno potesse dire la sua. Anche i più timidi riescono a farlo quando è buio, è più facile se non siè in piena luce.
Ricordo una sera: come al solito ci eravamo tutti preparati in cerchio (altra regola: in perfetto silenzio) nella radura, un poiat fuori dal bosco che sovrastava la valle, dove era stata preparata la catasta di legna raccolta per tempo. Il cielo era diventato blu e le stelle cominciavano a farsi vedere, eravamo in aprile e faceva ancora freddo. Le luci di fondo valle stavano scomparendo, coperte dalla nebbia che si alzava. Zitti e pazienti aspettavamo che il fuoco si ravvivasse.
Il nostro accompagnatore, zitto come noi, era un giovane prete che pochi anni prima, nel pieno della guerra diventata fratricida, era stato mandato dal suo vescovo a raggiungere suo fratello e i suoi compagni nascosti in montagna, perché avessero conforto e notizie e sentissero di non essere lasciati soli. C’erano pure i cappellani militari ad assistere anche quelli dell’altra parte, no?
In questa tristissima guerra il prete perse poi il fratello. Perché non succedesse ancora che si uccida tra fratelli, con i suoi compagni aveva deciso che occorreva cambiare la mentalità e l’educazione dei giovani.
Il fuoco si era ravvivato, i monti e il bosco erano diventati una cortina nera sul blu del cielo e si vedevano solo le nostre facce. Il prete taceva e aspettava. Uno di noi disse: “E’ in questi posti che hai fatto il partigiano?”.
Lui sorrise: “Non ho fatto il partigiano, nel mio mestiere non si può. Mi avevano mandato qui per rincuorare i giovani che avevano scelto una strada di libertà, c’era anche mio fratello. Andavo e tornavo quando potevo, portavo notizie e lettere”. “Non ti hanno mai fermato? “Si, certo. Ma un prete di queste zone le scuse per trovarsi qui le può facilmente trovare. Mi è andata bene”. “Ma tu hai combattuto?”. “No di certo. Il compito del nostro gruppo era quello di impegnare le truppe tedesche e fasciste togliendole dalla guerra vera che si avvicinava dal sud, di raccogliere gli sbandati, di rifornire le bande partigiane di cibo e di notizie, ma soprattutto di preparare gli animi alla ripresa della vita civile e democratica. Eravamo armati certo,per difenderci e difendere alla bisogna i civili soggetti talvolta ad un’occupazione brutale”.
La legna piccola era ormai bruciata, si era formato un bel braciere, non vedevamo più la faccia del nostro interlocutore se non quando si alzava qualche fiammata.
“Sì, eravamo pressappoco in questa zona quando la Repubblica Sociale di Salò decise che la nostra presenza era un affronto. Quel giorno avevamo lasciato come al solito, più in basso, alcuni nostri per il controllo della strada provinciale. Ho un ricordo preciso come se fosse successo ora: sentiamo alcuni spari e dopo pochi minuti due dei nostri salgono di corsa: “Arrivano i fascisti !”.
Subito il campo si anima, prendiamo gli zaini, spegniamo il fuoco e ci disperdiamo sopra il prato, nel bosco. Vediamo venir su, guardinghi, alcuni militi fascisti armati di mitra. Entrano nella nostra malga, buttano fuori le poche cose che avevamo lasciato e poi risalgono il pendio. Quando sono a pochi passi dal bosco si sente un fischio dall’alto. I nostri sparano per dissuaderli dal proseguire. I militi di corsa scendono e si riparano dietro i muri della malga. Dopo un po’ vediamo tanto fumo, la malga brucia e al riparo del fumo i militi riprendono la via per la quale erano saliti. Alcuni dei nostri li seguono a distanza per controllare che se ne siano andati davvero. La malga è andata in fumo insieme ai viveri e a poche altre cose. Non ci resta che riprendere la strada dei monti e andare altrove. Intanto quelli che erano scesi a controllare la presenza dei militi tornano spingendone uno. E’ vestito con i pantaloni alla zuava grigio verde, il maglione nero, è disarmato senza berretto. Gli siamo tutti intorno: è un ragazzino e piange.
E’ successo forse anche a voi, in quei giorni, a scuola come è successo a me che un milite della X Mas si sia sostituito al professore e vi abbia spiegato perché l’onore della Patria esigeva che non si dovesse rinnegare il patto con la Germania. E che vi abbia invitato a visitare le caserme della Repubblica e le basi della X Mas (n.d.r. l’autore allora viveva a Milano dove era accasermata la X Mas): molti ragazzi, anche minorenni, spinti dalla retorica del bel gesto e convinti di fare cosa nobile, si sono arruolati dichiarando di essere più che diciottenni. Questo è uno di quelli, non piange per la paura, ma per la stizza. Ha perso il contatto con il suo reparto, è stato sorpreso e catturato. Non è riuscito a dimostrare il suo valore. “E adesso che cosa ne facciamo?”.
Lo portiamo con noi più su, troviamo un altro riparo e per due giorni lo sorvegliamo a vista. E’ tranquillo e beneducato, tanto che gli diciamo: “Non possiamo lasciarti andare, Questo lo hai capito, vero?Ne va delle nostre vite e di quelle dei nostri familiari che vivono in questi paesi. Hai sentito parlare di ritorsioni e rappresaglie? Tu devi restare con noi, ma non ti imprigioniamo se tu ci dai la tua parola d’onore che non tenti di fuggire”.
Certo che ce l’ha data la sua parola e noi abbiamo creduto che valesse quanto la nostra.
Ma durante una marcia di trasferimento: “Hai visto il ………?”. Era qui un momento fa”. “E ora dov’è? Tornate in dietro e riprendetelo”. Dopo qualche ora eccolo di nuovo, spintonato da chi era riuscito a raggiungerlo prima che arrivasse in paese.
“Perché sei fuggito?”. “Perché prima di dare la parola a voi l’avevo data alla mia Patria”.
“E se ti lasciamo andare che farai?”. “Andrò dai miei camerati e dirò chi siete e dove siete”. “Hai capito che non possiamo lasciartelo fare”. “L’ho capito, sì, ma io ho dato la mia parola”.
Non ci fu verso e non c’era altra soluzione. Lo abbracciammo tutti piangendo, lui ci perdonò e noi lo fucilammo. Non sapremo mai se noi riusciremo a perdonarci. Anche questo bisogna mettere sul conto di chi ci ha portato a questi estremi, imponendo ai non violenti la pratica della violenza. Io sono qui con voi anche perché facciate in modo che questo non succeda mai più”.
L’aria era diventata molto fredda e noi non avevamo più voglia di chiedere altro. Spento il fuoco, andammo a dormire senza una parola. Quello che ci era stato confidato non poteva facilmente compreso alla nostra età.
E’ passato più di mezzo secolo, ma non sono ancora in grado di giudicare questa storia che ultimamente mi è ritornata in mente di prepotenza. Non ricordo né il luogo né quando (aprile 1946?) il prete si confessò con noi: vorrei tanto aver tenuto un diario: dato il tempo trascorso può essere che la mia memoria sia diventata sbiadita e imprecisa, tanto che il finale della storia non mi pare più verosimile, e il tutto svapora quasi fosse un sogno. Né spero di avere da alcuno conferme o correzioni: da quelli che c’erano quella sera, forse sono rimasto solo io.

Questo avevo scritto nel 2013 e poi l’ho mandato ad un mio caro amico del tempo per avere un riscontro. Quella volta lui non c’era, ma ne è venuta fuori una serie di altri ricordi e rimandi ad altre storie simili: il mio amico, sempre a caccia di storie locali, mi combinò un incontro con un corrispondente del Corriere della Sera, che mi fece ripetere la storia. Confermai che non sapevo niente di più di quanto avevo scritto. Ora, a distanza di alcuni mesi, l’amico mi riscrive mandandomi un articolo del 25 aprile 1985, ritagliato da un numero speciale del Giornale di Brescia. E’ firmato “Luigi Rinaldini”, il prete che ci aveva raccattati, e intitolato “Dagli appunti di un cappellano dei ribelli”.
Il mio amico mi dice che quanto scritto in questi appunti dal “Bigio”, come si faceva chiamare da noi, collimano con quanto mi ricordavo. Riscrivo qui il testo dell’articolo, a corollario della storia del mio ricordo, perché i miei figli vedano, come ha detto qualcuno, come certi morti rimangono più vivi di tanti vivi.

Dagli appunti di un cappellano dei ribelli
Luigi Rinaldini

“Ero stato ordinato sacerdote il 27 febbraio 1944 dal vescovo Mons. Giacinto Tredici, il quale, consacrando me proprio nella chiesa della Pace, compiva il suo atto di ribellione contro chi poco prima aveva incarcerato il mio superiore, Padre Carlo Manziana. Per l’ultima volta erano con me tutti i miei familiari; poi il carcere, deportazione e morte li colpirono tutti. E mi erano vicini anche Teresio Olivelli – che alla base del calice, datomi in dono a nome dei “ribelli”, aveva fatto incidere “Ricorda al Dio della pace e degli eserciti le catacombe di Brescia”- e vari altri amici che già operavano in montagna coi primi gruppi partigiani.
In aprile mi recai insieme a Francesco Brunelli, nella cascina di Sacù , sulle pendici della Corna Blacca a dire la Messa per un gruppo di “ribelli” cui apparteneva anche mio fratello Emi. Fu la prima delle mie tante messe che avrei celebrato sulle montagne bresciane. Pochi giorni dopo, Romolo Ragnoli mi chiese di andare a celebrare la Pasqua in tutti i gruppi della Valcamonica, consapevoli, lui e don Carlo Comensoli, della necessità di poter disporre di un prete che fosse libero da altri impegni, che non appartenesse al clero locale facendone presupporre la collaborazione. Mi recai in valle ai primi di giugno e presi dimora prima a Prestine e poi a Esine, ma il perno della mia attività rimase sempre l’ospitale canonica di Cividate.
Nel frattempo, il vescovo Tredici, temendo per me, non aveva voluto nominarmi, in modo preciso, cappellano delle Fiamme Verdi. Ma poi il suo vicario, mons. Ernesto Pasini, mi nominò curato di tutti i paesi della Diocesi dotandomi di tutte le facoltà possibili nelle situazioni normali e in quelle eccezionali. Fui munito di documenti intestati a don Francesco Grimaldi e così, mutato il nome, mi avventurai per valli e per monti, vestendo da prete al piano e da pecoraio in montagna.
Celebrai messe, predicai, confessai, ascoltai confidenze, richiesi sempre coerenza ed onestà e fermezza, ebbi lunghi colloqui con tutti, trascorrendo solo qualche volta più di un giorno nella stessa località. Dovunque sentii che la Resistenza non era solo la reazione di qualche gruppo di volontari ma il moto di un popolo intero.
Di solito la cosa più difficile era quella di farsi riconoscere come prete dai “ribelli”. Non bastava la testimonianza di Romolo o quella di altri comandanti che mi conoscevano; era necessario che mi vedessero con la veste, perché questa era per loro il segno distintivo dell’essere un prete. Altarino da campo e veste furono i miei compagni inseparabili, di giorno ma anche di notte quando potevano servire come guanciale. Una volta servirono anche come tabernacolo notturno per custodire il Signore che la mattina dopo avrei comunicato ad un condannato a morte.
Superata la prima diffidenza per questo estraneo (“un po’ camuno e un po’ no” – “mezzo alpino e mezzo chierico” – “ricco di buona volontà ma non di eloquenza ed anche un po’ timido”) si diveniva amici, aperti al colloquio, alla confidenza, si condividevano sacrifici e paure, si facevano piani per l’avvenire. Da parte mia preferivo proporre costantemente l’eroismo non del guerrigliero ma del martire, del fratello che dà la vita per i fratelli, dell’amico che si sacrifica per il nemico. Sembrava cosa assurda, in mezzo a sacrifici già tanto numerosi, proporre eroismi ancora più grandi. Ma sapevamo tutti che quelli erano tempi in cui essi erano necessari, che la “preghiera del ribelle” non bastava recitarla a parole: qualcuno, tra noi, prima o poi avrebbe dovuto dirla con la propria vita. Così fu per l’autore di essa, Olivelli, così fu per Giacomo Cappellini, per Antonio Schivardi, per Ippolito Boschi, per mio fratello Emi e per altri; così fu per chi ne aveva compreso tutto il significato come per chi, recitandola, pensava che poco essa aggiungesse al “Pater” e a quanto il padre e la madre gli avevano insegnato.
La semplicità, la purezza di cuore e la lezione di un cristianesimo saldamente appreso in famiglia ci diedero, allora, degli autentici santi ed eroi. Buona gente, diceva don Carlo. Io oso dire che, in quei giorni, abbiamo camminato fra i santi, veri santi, che pregavano e meditavano come dei contemplativi, che si morsicavano le labbra e le mani per trovare il coraggio di amare il nemico e non si rifiutarono anche di abbracciarlo, vicendevolmente perdonandosi di dover eseguire una sentenza crudele; che anche nella tortura, sapevano perdonare e pregare ed esprimersi in un modo che ancor oggi ci strappa le lacrime “.
Carlo Resconi, Milano -febbraio 2014
——————

Una grande e profonda tensione spirituale ha sempre caratterizzato “il pensiero e l’azione” di Zi’ Bigio ed il filo conduttore che lo ha condotto dalle dure prove del periodo resistenziale allo scautismo per realizzare il sogno del fratello Emi ucciso il 10 febbraio 1945 sui nostri amati monti, “ribelle per amore”. Ne sono sempre stato testimone fin da quando fu ordinato sacerdote il 26 febbraio 1943 nella chiesa di S. Maria della Pace, ed io ero un ragazzino, fino alla fine del suo cammino terreno.

Cenni biografici di Padre Rinaldini
Nato a Brescia il 24 luglio 1920, appartiene a una modesta famiglia del vecchio quartiere cittadino di S. Giovanni. Tutta la famiglia passa attraverso la dura prova della Resistenza. I genitori Angelo e Linda Lonati subiscono la carcerazione, il fratello Emiliano viene barbaramente fucilato nei pressi dell’eremo di Barbaine in Pertica Alta, Federico muore nel lager di Mauthausen e la sorella Giacomina sopravvive alle atrocità di Buchenwald.
Luigi, dopo la maturità scientifica al Liceo A. Calini, nel 1939 entra novizio nella Congregazione dei Padri Filippini dell’Oratorio della Pace.
Il 26 febbraio 1944 viene ordinato sacerdote nella chiesa della Pace dal vescovo mons. Giacinto Tredici ed il 27 celebra la sua prima messa.
Il vescovo, subito dopo, gli conferisce l’incarico di Cappellano delle Fiamme Verdi, che mantiene sino alla fine del conflitto.
Percorre tutti i sentieri delle valli bresciane per portare ai gruppi delle Fiamme Verdi assistenza religiosa, conforto e notizie. Durante le sue puntate in città si adopera, con l’aiuto di suor Angela pe nascondere partigiani e ricercati nel convento delle Suore Orsoline.
Nel 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, fonda il primo gruppo scout della provincia, il BS1, di cui sarà Assistente fino al 1953 e del clan fino al 1965.
Dal 1951 al 1956 è Assistente provinciale della branca Rover. In questi anni promuove la formazione di un clan cittadino, avente come fulcro il clan del BS 1, per riunire con attività in comune i rover isolati di altri gruppi.
Dal 1949 al 1957 è al fianco di padre Giulio Bevilacqua nella parrocchia di S. Antonio, in veste di coadiutore.
Nel 1951 costituisce presso la parrocchia di S. Antonio il gruppo ASCI BS 8 e successivamente il gruppo AGI BS 2, di cui sarà Assistente fino al 1959.
Dal 1955 al 1956 assume l’incarico di Assistente provinciale ASCI.
Dal 1961 al 1964 è Vice direttore della Casa di Esercizi S. Filippo.
Nel 1966 fonda l’ADASM (Associazione Asili e Scuole Materne di Brescia) di cui sarà Assistente ecclesiastico fino al 1992.
Nel 1974 promuove la fondazione della FISM (Federazione Italiana Scuole Materne).
Dal 1964 al 1988 è Rettore del “Centro Sociale “P. Marcolini”.
Dal 1946 in poi svolge i seguenti ruoli di insegnante:
1946 – 1949 scuola Moretto
1956 liceo scientifico privato delle Suore Orsoline
1964 – 1965 scuola Convitto Assistenti Sanitarie
1960 promotore dei corsi privati per Maestre d’Asilo e insegnate degli stessi fino al 1985.

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